Le bottiglie di spumante, a scelta secco o dolce, poste sul tavolo alla fine della cena di benvenuto di Don Nicolò Niccolini sono rimaste piene. Tanta era l’attenzione per la semplice storia di un giovane prete di 29 anni, originario di Gabicce Mare, cui l’attrattiva per le bollicine era venuta meno, così anche per i galani (dolce veronese del periodo di carnevale).
Eppure aveva detto poche cose, nella decina di minuti che precedevano l’incontro su come si costruisce la Chiesa, non in un quartiere di Verona, come fu per la parrocchia di San Domenico Savio oltre trenta anni fa, ma in un carcere minorile di Roma.
Le persone avevano sentito poche cose, ma vere. In fila: la sua vocazione nata in una normale famiglia che non era abituata ad andare in chiesa, il catechismo mal sopportato dal giovane Nicolò, la gioia negli occhi azzurri e felici di un altro giovane prete di paese che lo colpisce nel cuore e diventano il seme di una vocazione, un coro nato da due ragazzi appena cresimati che, invece di allontanarsi dalla Chiesa come fanno tanti a quell’età, si ritrovano la domenica a cantare a casa di una catechista che li prepara all’incontro e parla di un tale don Giussani e legge alcune pagine difficili, ma intense. E poi, il colloquio con il vescovo di Pesaro dove dichiara la sua volontà di farsi prete; il seminario a Roma, nella Fraternità missionaria di San Carlo. Vice rettore e diacono a soli 25 anni e l’incarico poi da prete di recarsi nel carcere minorile romano di Casal del Marmo, all’inizio da solo e poi accompagnato dai suoi seminaristi.
Quindi, la testimonianza del come fare comunità in un carcere minorile, con ragazzi che vanno dai 14 ai 25 anni di età. Storie e nazionalità diverse, rumeni, albanesi o delle tante regioni dell’Est Europa; nord africani, rom, italiani, accomunati solo dai reati commessi e dalla mancanza di solide famiglie. Testimoniare non significa gridare sui tetti le verità rivelate, ma farle rivivere in quelli che le accolgono, magari per un attimo, donando tempo e ricevendo parole, sussurrate o urlate, talvolta scritte, che cambiano la vita di tutti.
Fare comunità in un carcere minorile è dare attenzione ad ogni persona, salutando tutti nessuno escluso, offrire tempo, stare nella relazione, avere a cuore persone che talvolta nella vita non hanno mai sentito nessuno dire loro “ti voglio bene”. Ragazzi a cui è mancata una mamma o un papà, non perché sono mancati i genitori, ma perché sono mancati i “NO!” autorevoli di un padre, lasciando così alla strada l’unica via che sembrava possibile per farcela, anche se si è rivelata il vicolo cieco di una reclusione e di occhi invecchiati dalle troppe cose brutte viste, fatte e vissute.
Nel carcere come nelle famiglie o in parrocchia si tratta di educare, un compito che non spetta a singoli o a supereroi ma a tutti, perché da soli non possiamo fare nulla.
“Prete, tu hai un vizio, far felici gli altri” ha detto un ragazzo, Daniel, a Nicolò dopo che per mezzo suo aveva scoperto in una giornata di permesso la bellezza di Roma. Ed educare significa anche questo, come Gesù, saper distinguere l’errore dalla persona, nella verità, portando a riconoscere il male fatto e la responsabilità individuale, ma anche offrendo un orizzonte di felicità, di possibilità, una amicizia che inizia esponendosi alla emozione e alla sconfitta, ma che apre l’altro alla relazione. Dare fiducia, la ricetta per educare, anche se ti hanno spiegato che il 90% delle cose che ti diranno i ragazzi saranno bugie, anche se qualcuno uscendo non ti ha più riconosciuto, anche se riconosci che la libertà dell’altro ti impone di non pensare di cambiarlo, ma di incontrarlo.
“Se sei con persone che ti vogliono bene qualunque luogo diventa casa tua” ha detto Cristian, un altro ragazzo fra i tanti entrati in carcere per spaccio, violenze, furti e rapine, omicidi, ma ancora ragazzo, ancora uomo, meritevole di fiducia.
Entos Hymon, in mezzo a voi, fra di voi, dice il Signore del suo regno nel Vangelo, ed è così quando la sua parola si realizza nella vita di giovani detenuti che chiedono come a Emmaus a Nicolò di fermarsi a cena con loro o, che si aprono alla misericordia del sacramento o, che partecipano alla Messa domenicale, non fosse altro che per ritrovare altri amici o per sentirsi compresi dal Signore della Samaritana, del pubblicano, del lebbroso, del ladrone, di tutti gli uomini qualunque sia la loro storia.
In mezzo a voi, come con noi in questo incontro e come nella vita della parrocchia quando insieme siamo comunità e luogo educativo, “compagnia tesa a divenire casa abitabile per ogni uomo”.
Fabio Cortesi
(Vice presidente Consiglio Pastorale Parrocchiale)