Il titolo dell’incontro di venerdì 2 febbraio nel teatro parrocchiale forse ha spaventato qualcuno. Molti potevano pensare ad una serata fra il filosofico ed il teologico, dissertazioni sul dover essere fratelli ed altre cose già sentite e che non valeva la pena riascoltare in una fredda sera di inizio febbraio, magari meglio la tv. Invece abbiamo ascoltato poca filosofia, teologia pratica, vita di ogni giorno di un prete della Fraternità missionaria San Carlo, don Stefano Lavelli e di un seminarista, Nicola Robotti. Effetti speciali, miracoli, zero.
Invece abbiamo sentito orari di sveglia quando altri dormono; tempo per la preghiera e per il silenzio, perché se non c’è un tempo ed un luogo per la relazione con sé e con il Signore lentamente rimaniamo soli; tempo per guardare negli occhi gli altri, a tavola ma anche in ginocchio, per dirsi il vissuto e meravigliarsi di quanto accade senza progetti o fuori da ogni proprio disegno, ma sempre sorprendente.
Stefano, prete da cinque anni e Nicola, che a 40 anni da senso alla ubbidienza come regola per imparare a dare la propria vita, hanno in comune l’età, la vocazione adulta, i pochi capelli e la scelta di “essere di Gesù”, di “andare dove sei mandato”, la voglia di ‘vedere ciò che il Signore fà, magari incontrando persone sconosciute prima o stare in luoghi mai pensati o sognati, come un anno a Nairobi, o fra i cinesi di Roma, o in una parrocchia del centro di Torino che diventa cerchio che si allarga per accogliere chi in una grande città italiana, ragazzo o adulto, potrebbe non aver mai sentito parlare di Gesù o potrebbe stupirsi di una pastorale fatta anche di inviti a cena nella casa dei preti. E ancora fare fraternità, aprendo le porte a mamme e bambini che cercano uno spazio per giocare o facendo catechismo con il teatro perché i ragazzi cercano vita e felicità agita invece di lezioni, gareggiando, come scrive San Paolo, nello stimarsi a vicenda, riconoscendo il bene che dall’altro fluisce. Un piacentino trapiantato a Torino ed un alessandrino che studia a Roma, ci hanno testimoniato che vivere assieme è possibile, prendendosi cura prima di tutto di noi stessi per salvare le nostre anime e quindi prendersi cura delle persone che il Signore ci mette accanto. Nessuno di noi ha scelto il proprio prossimo e comprendere che le nostre relazioni sono dono, che quanto siamo ed abbiamo viene da un altro diventa liberante e naturalmente ci porta alla gratitudine.
I missionari ci hanno detto che la prima missione è con sé stessi, fuori dalla illusione di poter pianificare gli incontri o la propria storia, ma leggendola come offerta gratuita. E poi è possibile la missione verso i propri fratelli, ovunque, “ricentrando lo sguardo su ciò che accade”, magari in una casa senza tv o con tempo da liberare.
O siamo matti, ci hanno detto, a vedere la vita con questi occhi, quelli della fede in Gesù risorto e vivente, e non è vero niente, o davvero esiste Dio Trinità, relazione che dà senso a tutte le relazioni, ma, pensandoci, noi non siamo matti, perché vogliamo aprire e non chiudere gli occhi, abbracciare e non allontanarci da noi stessi e dagli altri, incontrare il datore di ogni dono e non pensare, da veri folli, di essere padroni del nostro tempo o dei fili della storia. Semmai siamo gente che cammina insieme e che ha bisogno di fraternità, di stare insieme, perché mangiare da soli, pregare da soli, parlare da soli, pensare da soli, non è la stessa cosa di farlo con altri amici, fratelli, magari ogni giorno, magari quando vogliamo davvero essere felici. Comunione e fraternità, ci hanno spiegato con il loro vissuto, hanno bisogno di tempi, di regole, di riti, di un vuoto dentro di noi che rende possibile l’incontro e che trasforma la correzione come sguardo che si alza.
Fabio Cortesi